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Gaetano Esposito: L’arte della preghiera e il misterioso fascino del peccato

Si sente veramente un silenzio, pastoso e delicato, al guardare una giovane ragazza tipicamente del sud con quei suoi capelli corvini che tanto si sposano bene con il luminoso rossore delle grandi gote.

E poi tutto il resto si spegne, improvvisamente, come una lampadina ed il resto del volto viene cancellato da una pesantissima ombra scura.

“Tentazione” si chiama l’affascinante opera dell’artista salernitano Gaetano Esposito, splendido ed introverso pittore, allievo di Domenico Morelli, nato nel 1858 e morto tragicamente suicida nel 1911. Personalità estremamente sensibile come lo si vede anche nel suo modo di dipingere, così intenso ed emotivamente coinvolgente, pose fine alla sua vita proprio traumatizzato dal precedente suicidio di una sua allieva che si era innamorata di lui e che lui aveva respinto. Purtroppo sorte tragica hanno subito anche le opere del sublime artista, la maggior parte delle quali sono o tragicamente scomparse o vendute all’estero.

Con un titolo come tentazione non poteva mancare la rappresentazione di una bella e giovane donna, vestita di un abito attillato nero. La composizione ruota sulle sinuose mani intrecciate su quel rosario dimenticato da un interesse verso qualcos’altro, chissà cosa, che ne rapisce così intensamente l’attenzione. Estremamente romantica è la visione di Esposito della fragilità di questa piccola donna, attraverso una pittura resa con pennellate pastose e tremanti come a immortalare quel fremito del corpo della protagonista. Una pittura che riporta alla tradizione caravaggesca di inizio Seicento, quando il gioco di luci ed ombre diviene fortemente simbolico e ricco di messaggi: le zone più intensamente illuminate sono il bene, mentre quelle in ombra rappresentano il male, il peccato, l’oblio, la fragilità della condizione umana.

Realizzata nel 1883, l’opera su tela apparteneva ad una ricca collezione campana, mentre attualmente è di proprietà della collezione d’arte del San Paolo Banco di Napoli e visitabile presso il Museo Pignatelli del capoluogo campano.

Curiosità sul rosario

Oggetto ricco di storia il rosario, le cui origini vanno ritrovate addirittura nei secoli III e IV, ai tempi dei monaci del deserto che vivevano da eremiti. Essi avevano infatti l’abitudine di contare le preghiere con una cordicella annodata.

L’origine dei grani va invece ritrovata in epoca medievale, quando si usava mettere una corona di rose sulle statue della Vergine, a simboleggiare le preghiere “belle” e “profumate” rivolte a Maria. Rose che poi si sono appunto trasformate in grani, che anch’esse servivano, e servono tutt’ora, a guidare la meditazione contando le preghiere. Naturalmente i materiali di questi grani erano diversi a seconda del proprietario, potevano incorporare anche reliquie e si poteva andare dalle perle ai più economici semi dell’albero del mogano o noccioli di olive. Nel XIII secolo poi i monaci cistercensi elaborarono, a partire da queste collane, che allora si conoscevano con il termine di “paternoster”, una nuova preghiera che chiamarono rosario, devozione questa in seguito resa popolare da San Domenico. Secondo la tradizione, infatti, quest’ultimo ricevette nel 1214 il primo rosario direttamente dalle mani della Vergine Maria, nella prima di una serie di apparizioni, come un mezzo per la conversione dei non credenti e dei peccatori. Il movimento circolare che si fa sgranando il rosario simboleggia il percorso spirituale del cristiano verso Dio: un lungo ritorno. Oggetti simili al rosario sono rintracciabili in varie religioni oltre a quella cattolica: nell’induismo, nel buddhismo, nell’islam e nell’oriente cristiano. Di solito la corona del rosario è formata da 50 grani in gruppi di dieci (le decine), con un grano più grosso tra ciascuna decade. Alcuni rosari però presentano centocinquanta o cento grani: tali numeri sono stati scelti in passato per corrispondere al numero dei salmi o ad una frazione di essi, ovvero due terzi dei 150 salmi; mentre il rosario francescano, anziché avere 50 grani, ne ha 70.

Informazioni utili per andare a visitare la “bella peccatrice”:

Museo Pignatelli Cortes e Museo delle Carrozze – Riviera di Chiaia n. 200 – Napoli

e-mail: [email protected]

orario: 8.30-13.30, chiuso il martedì

Costo del biglietto:

ingresso (indicativo): euro 2 (tariffa intera) – euro 1 per residenti UE 19-24 anni; gratis under18 e over 65; 10% di riduzione con Artecard. (tariffa ridotta)

Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità (terza parte)

SETTIMA SALA

Quello che abbiamo potuto vedere in questo nostro viaggio è sì il denaro nella sua accezione negativa ma tale denaro fu per secoli strumento dei grandi mecenati per comprare e far usufruire al mondo della bellezza.

Hans Memling Particolare con Benedetto Portinari dal “Trittico Portinari” (1487) olio su tavola Galleria degli Uffizi, Firenze

Tra i raffinati committenti di opere d’arte vi fu sicuramente la famiglia Portinari, i cui membri furono personaggi di spicco nella Firenze medicea, responsabili anche di filiali del Banco Medici all’estero ma che, proprio per le loro eccessive spese, lo fecero fallire a Bruges. Qui è ritratto Benedetto Portinari col suo Santo omonimo accanto, in un’opera del fiammingo Hans Memling, originariamente un trittico con al centro una Madonna col Bambino, oggi a Berlino.

 

 

 

 

 

Altro grande e raffinato mecenate fu Filippo Strozzi, al quale si deve anche il Palazzo omonimo che ospita questa mostra, Di Palazzo Strozzi Filippo voleva fare la più grandiosa costruzione dell’epoca, a simboleggiare la potenza della sua famiglia. Si trattò di preparativi molto complessi, dovuti non solo alla grandiosità della costruzione, ma anche al fatto che essa era destinata a modificare profondamente il tessuto urbano circostante, per il fatto che la nuova costruzione avrebbe comportato una riduzione dell’ampiezza della piazza antistante. Addirittura la data e perfino l’ora della posa della prima pietra non fu lasciata al caso. Filippo, con l’aiuto di un astrologo, scelse il 6 d’agosto 1489 alle ore 10 e 1/6 poiché proprio in quel momento saliva ad oriente il segno del leone che avrebbe portato fortuna alla casa e a tutti i suoi abitanti. In realtà non fu proprio così perché, nonostante tutti gli accorgimenti, subito dopo la morte dello Strozzi ebbero inizio i litigi fra i suoi tre figli e il palazzo rimase incompiuto.

Domenico Ghirlandaio “Adorazione dei pastori con Filippo Strozzi Bottega” (1487-1488) Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen
Lo Scheggia “Desco da parto col gioco del civettino” (Metà XV sec.) Museo di Palazzo Davanzati

Abbiamo parlato del matrimonio e del funerale come due momenti di grande dispendio, ma anche il parto non era da meno, per sfoggiare oggetti di grande finezza, anche se di uso domestico. Per esempio il cosiddetto “desco da parto” dipinto dallo Scheggia. L’artista probabilmente dovette fare i conti con il confronto ingombrante quanto inevitabile con la geniale personalità del fratello Masaccio che, pur morendo precocemente nel 1428, aveva segnato una svolta profonda nell’arte italiana. In compenso Giovanni seppe ben interpretare l’andamento del mercato d’arte che, dagli anni quaranta in città, vide un netto incremento delle richieste di commissioni private. Il tema raffigurato su ambo i lati è il gioco, perché era considerato un augurio per la coppia di fertilità. Sul fronte, in uno scenario urbano inquadrato prospetticamente, tre giovani in camicia e calze suolate stanno facendo il gioco del civettino o della civetta: il ragazzo al centro deve colpire gli altri due, trattenuti coi piedi, senza farsi colpire a sua volta. Intorno a loro altri giovani uomini passeggiano a coppia, elegantemente vestiti.

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Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità (seconda parte)

QUARTA SALA

Adesso addentriamoci più a fondo nel mestiere del banchiere fiorentino. A partire dal XII secolo nacquero, in molte città italiane ed europee, le prime corporazioni di arti e mestieri, che erano delle associazioni create per regolamentare e tutelare le attività degli appartenenti ad una stessa categoria professionale. I banchieri appartenevano, come abbiamo visto, all’Arte del Cambio. I cambiatori erano coloro che stavano dietro un banco (da qui i termini “banca” e “bancarotta” perché si usava spaccare il banco al banchiere insolvente), cambiando monete d’argento in monete d’oro e viceversa. I banchieri si arricchirono cambiando denaro sui mercati internazionali. E come facevano?

Con la lettera di cambio, uno strumento bancario con la duplice funzione di trasferimento di denaro e di strumento di credito; essa consente di movimentare denaro da un luogo all’altro in assenza di un trasferimento materiale di moneta, grazie solo a operazioni contabili. Per esempio, immaginate un mercante fiorentino che voglia acquistare zucchero, spezie e uva sultanina a Barcellona. Deve necessariamente inviare il denaro al suo fornitore che si trova appunto a Barcellona; gli si presenta però subito un primo e grandissimo problema: trasferire fisicamente i soldi da una città all’altra. Pensiamo infatti ai rischi e al gran dispendio di tempo che un viaggio del genere comportava a quell’epoca. E così si reca da un banchiere, che a Firenze lavoravano nel Mercato Nuovo, gli consegna il denaro e riceve una lettera di cambio: sarà quest’ultima che invierà al fornitore e sarà quest’ultimo che la porterà alla filiale spagnola della banca per riscuotere i soldi nella valuta locale. Nel caso la banca non abbia una filiale a Barcellona potrebbe appoggiarsi a quella di un istituto associato, magari in un’altra città. Un punto di forza dei fiorentini fu proprio la gran quantità di banche con filiali in vari centri italiani ed esteri. Per tutto questo meccanismo, naturalmente il gioco di squadra era fondamentale. La lettera di cambio divenne in breve anche il modo migliore per aggirare i divieti posti dalla Chiesa, attuando il rimborso del denaro prestato in un altro luogo e in altra valuta.

Lettera di cambio di Diamante e Altobianco degli Alberti a Francesco di Marco Datini e Luca del Sera, Bruges-Barcellona, 2 settembre 1398, Prato, Archivio di stato

Fisicamente la lettera di cambio si presenta con un formato ridotto ed un formulario essenziale. Su di essa sono specificati sempre la data di emissione e il numero dell’esemplare emesso, ribadito anche sulla “busta”, poiché la prassi prevedeva l’invio di più esemplari (fino a quattro), per garantire l’arrivo a destinazione di almeno uno di essi a causa della possibilità di smarrimento e dell’insicurezza delle vie di comunicazione. Solo l’esemplare giunto per primo a destinazione veniva validato.

In questa sala troviamo i “ferri del mestiere” del banchiere-mercante, per esempio i manuali come il “Libro di Mercatantie et usanze de paesi” della fine del ‘400. Questi testi ricchissimi di informazioni di ogni tipo costituiscono un genere letterario, denominato le «Pratiche di mercanzia», che si diffuse a partire dal Medioevo nelle metropoli italiane del commercio e in particolare a Firenze, Genova e Venezia. Erano compilati da mercanti come guide per scopi commerciali e vi venivano descritte le varie piazze commerciali europee e mediorientali; le loro condizioni economiche, come la moneta in corso e le altre valute accettate; le misure usate e il relativo valore; i prodotti disponibili e la loro qualità. Si presentavano come “volumetti”, di formato ridotto, adatti per essere portati con sé nei viaggi e utilizzati non solo dal mercante ma anche dal viaggiatore-turista per le migliaia di informazioni utili e pratiche.

Marinus van Reymerswaele “A Moneychangr and His Wife” (1538) olio su tavola 31×42 Madrid, Prado

Il dipinto raffigurante una famiglia di usurai di Marinus van Reymerswaele ci presenta proprio tutti gli strumenti che utilizzava il banchiere per l’esercizio del mestiere e che ritroviamo “dal vero” nella vetrina davanti. I due personaggi appaiono intenti a contare con avidità i denari sparsi sul tavolo in primo piano. Abbiamo già potuto osservare come quella della raffigurazione dei banchieri sia un genere d’arte che ebbe molto successo nella prima metà del ‘500 in area fiamminga anche per i suoi caratteri fortemente simbolici volti a dare precisi messaggi morali. Infatti qui vediamo un’attenzione particolare dell’artista nel rendere le mani dei due protagonisti: segnate dagli anni quelle dell’uomo, che si accinge a verificare il peso di una moneta sulla piccola bilancia, più candide, ma quasi rapaci, come degli artigli, quelle della moglie, che tiene il libro per la contabilità. Sullo scaffale alle loro spalle, vi sono splendidi particolari di ‘‘natura morta’’ nelle lettere, nei fogli e negli oggetti di uso quotidiano posti disordinatamente, mentre fortemente simbolica è la candela spenta, posta sulla destra ma posizionata non a caso tra i due coniugi, allusiva alla brevità della vita.

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