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I Conti Rabbiosi e il Barbarossa: la storia di un castello

 

L’origine della Rocca di Cerbaia, il cui nome deriva dai caprioli e cervi che la popolavano, rimane ancor oggi sepolta nelle tenebre del periodo delle immigrazioni barbariche in Italia. I primi documenti che ne parlano risalgono al XII secolo. In origine, nel luogo dove ora sorge la Rocca, ci doveva essere un piccolo villaggio. Successivamente fu occupata “col ferro alla mano” da un barone alemanno, come ci racconta Vittorio Ugo Fedeli, erudito raccoglitore di memorie storiche e leggende locali, nell’“Edizione Rarissima” del Bollettino dell’Esposizione Artistica – Industriale di Prato del 1880. Fu quando la famiglia di “conti di Vernio e Mangona” degli Alberti edificarono tale Rocca, che possediamo maggiori informazioni. Questa famiglia era entrata “nelle grazie” di Federico Barbarossa (Federico I, Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1155); quest’ultimo era il nonno di Federico II di Svevia (Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1220) che anche lui sarà importante nella storia delle fortificazioni medievali, tanto da dare origine ad un vero e proprio “genere” di castelli detti appunto “federiciani”, perché presentano caratteri architettonici simili (come i più famosi Castello dell’Imperatore di Prato e Castel del Monte in Puglia).

Gli Alberti riuscirono ad ottenere un diploma dal Barbarossa che sanciva il possedimento della Rocca di Cerbaia. Essi, infatti, si erano presentati all’Imperatore nel 1164 a Pavia, dove quest’ultimo dimorava, per chiedergli terre e vassalli in cambio del loro appoggio politico.

Nel diploma si legge: “pro dilatando imperialis coronae solio tempore pacis et guerrae fideliter et strenue plurimus labores et maximas exprensas toleraverunt”. Il Fedeli precisa “con un colpo di penna concesse agli Alberti gran parte di territorio toscano e bolognese ed anche Cerbaria”.

Forti della pergamena imperiale e di un esercito di armati, i Conti Rabbiosi si gettarono sul castello, “che loro era sembrato bello e forte arnese da guerra da fronteggiare fiorentini e pistoiesi. Una masnada di cinquanta scherani lo assediò, gli dette l’assalto e l’occupò, cacciando il tirannello straniero. Ciò succedeva il 20 gennaio 1165”.

La Rocca per gli Alberti aveva una funzione abitativa a carattere politico, cioè era il simbolo di un ben preciso potere territoriale. Era una sorta di Palatium o Domus, distinguendosi dai Castra (castelli). Fu infatti solo a partire dal XIV secolo, sotto il dominio fiorentino, che la Rocca si trasformò in un presidio militare strategico, facendole perdere l’originaria caratteristica politico-residenziale. La Rocca divenne punto strategico e monumento simbolo della Val di Bisenzio, dato che quest’ultima era sicuramente un’importante via di comunicazione transappenninica fin dall’antichità, perché collegava due centri etruschi allineati geograficamente: Marzabotto ed Artimino. Le differenza tra Domus e Castrum sono legate per lo più all’uso che se ne faceva: la “Domus solaciarum” era una casa di svago, mentre al castello era assegnata per lo più una funzione militare, anche se le differenze tra i due tipi di costruzione era molto sfumata nella realtà dei fatti. É per questa distinzione principale di funzione che solitamente i castelli venivano costruiti all’interno delle città, mentre per la domus si prediligevano luoghi più isolati proprio per il carattere di ricerca di tranquillità. Gli Alberti, detti per il loro carattere, i Conti Rabbiosi, fecero del Palazzo la loro inquietante dimora, che divenne ben presto teatro di terribili omicidi che si susseguirono per generazioni nella loro famiglia.

Un palcoscenico d’eccezione: la Rocca di Cerbaia

Era una sera d’inverno del 1285. La neve cadeva a larghe falde nelle strette gole della Valle del Bisenzio. Un ventenne poeta saliva freddoloso, intirizzito, ghiacciato, l’erta disastrosa del castello di Cerbaia. La porta rotonda dai chiodi di ferro che gli si presentava avanti alla vista, era per lui un faro in quel mare di neve. Mentre saliva pensava alla gentile accoglienza che sicuramente gli avrebbe accordato il barone o il castellano che avrebbe trovato; forse la sua giovane mente si spaziava in sogni dorati, in fantasie da poeta. Si accostò così alla porta ferrata e chiese ospitalità, ma il ponte a levatoio rimase immobile: nessun portiere, nessun valletto corse ad aprire, mentre la neve continuava a cadere fitta e gelata. Pregò nuovamente, per l’amor di Dio, ma invano. Fu un pastore di una capanna poco lontana ad offrire ricovero al grande poeta, al più grande italiano che sia stato mai: Dante Alighieri.

Così racconta Vittorio Ugo Fedeli, erudito raccoglitore di memorie storiche e leggende locali, nell’“Edizione Rarissima” del Bollettino dell’Esposizione Artistica – Industriale di Prato del 1880, l’aneddoto, divenuto famoso, della vita di Dante.

Vent’anni dopo, l’Alighieri “condannò” per l’eternità a quel terribile e disperato gelo che aveva dovuto vivere lui in una notte d’inverno, quegli stessi baroni dal cuore di ghiaccio. Nel Canto XXXII dell’Inferno, infatti, Dante li imprigionerà nella “Caina”, confitti in un lago di ghiaccio fino al collo.

Se vuoi saper chi son cotesti due,

La valle onde Bisenzio si dichina

Del padre loro Alberto e di lor fue.

D’un corpo usciro: e tutta la Caina

Potrai cercare e non troverai ombra

Degna più d’esser fìtta in gelatina”.

La Caina deve il suo nome al personaggio biblico Caino che uccise Abele ed infatti, in questo passo dell’Inferno di Dante, sono puniti i traditori dei parenti. Quei baroni erano i fratelli Napoleone ed Alessandro degli Alberti che, l’odio di parte e motivi d’interesse, li portarono addirittura ad uccidersi l’un l’altro.

Ma questa fu uno dei tanti episodi di sangue per i quali si macchiarono per generazioni i membri della famiglia degli Alberti e che vide come palcoscenico d’eccezione proprio la Rocca di Cerbaia, un castello, oggi in rovina. La costruzione, che deve risalire agli inizi del XII secolo, si trova nella zona di Cantagallo, provincia di Prato, su di un colle che si erge  sul fiume Bisenzio, a 400 metri di altezza. Un posto questo di grande fascino e mistero, solitario, in mezzo al verde.

Si può visitare il castello su prenotazione: Chora Società Cooperativa Tel.: 380 6851152 – e-mail: [email protected]

Cassandra e il Principe

Cassandra Luci nasce a Roma nel 1785, la sua vicenda è legata soprattutto alla sua relazione con il principe Stanislao Poniatwski, nipote dell’ultimo re di Polonia Stanislao II. Egli, che fu un grande mecenate, amante delle arti e collezionista, era più volte stato nella capitale italiana, fino a quando non decise di trasferirvisi definitivamente e, nel 1800, acquistò una bella villa in via Flaminia, con magnifica vista su Villa Borghese. Grande proprietario terriero in Polonia, Stanislao divenne in breve grande proprietario anche in Italia: egli passava l’inverno a Roma, la primavera e l’autunno sul lago di Albano e l’estate nei suoi possedimenti di San Benedetto, a pochi chilometri da Mantova.

È proprio a Roma che incontrò Cassandra, nel 1804, e fu subito un colpo di fulmine: lui aveva 50 anni e lei 21. Fu un amore tormentato il loro, già dal loro primo incontro: la Luci si era disperatamente rifugiata nel palazzo Poniatowski di Via della Croce per sfuggire all’ennesima scenata di gelosia di suo marito, l’anziano e burbero Vincenzo Venturini Beloch.

Cassandra e Stanislao si innamorarono, tanto che decisero prestissimo di sposarsi. Il problema era però il marito di lei. Invano il principe tentò di ottenere l’annullamento di tale matrimonio dalla Sacra Rota, fino a quando dovette elargire un lauto compenso al Beloch perché rinunciasse a ogni diritto matrimoniale. Finalmente poté unirsi alla sua amata Cassandra, da lui ribattezzata Caterina, nome molto caro ai Poniatowski.

Ma il loro amore non aveva finito di incontrare ostacoli perché la loro relazione suscitò grande scandalo e i due ebbero addirittura 5 figli fuori dal matrimonio, tra il 1806 e il 1816, una cosa impensabile per l’epoca: Isabella, Carlo, Costanza, Giuseppe e Michele. Lo scandalo fu tale che i due amanti decisero di scappare da Roma e trasferirsi a Firenze, dove abitarono a Palazzo Capponi in via Larga, l’odierna via Cavour, al numero civico 18. Qui il principe trasferì la sua ricchissima collezione di quadri, statue romane, medaglie, glittica antica e libri rari, poi dispersa dagli eredi dopo la sua morte.

Solo nel 1822 Stanislao ottenne dal granduca la possibilità di riconoscere i propri figli, quando finalmente furono “abilitati a godere delle prerogative ed onori della Nobiltà, ad essi competente per diritto di sangue”. E solo nel 1830 riuscì finalmente a sposare Cassandra Luci che però lasciò vedova soltanto tre anni dopo. Continua la lettura di Cassandra e il Principe