Archivi categoria: Esperienze con le opere d’arte

Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità (seconda parte)

QUARTA SALA

Adesso addentriamoci più a fondo nel mestiere del banchiere fiorentino. A partire dal XII secolo nacquero, in molte città italiane ed europee, le prime corporazioni di arti e mestieri, che erano delle associazioni create per regolamentare e tutelare le attività degli appartenenti ad una stessa categoria professionale. I banchieri appartenevano, come abbiamo visto, all’Arte del Cambio. I cambiatori erano coloro che stavano dietro un banco (da qui i termini “banca” e “bancarotta” perché si usava spaccare il banco al banchiere insolvente), cambiando monete d’argento in monete d’oro e viceversa. I banchieri si arricchirono cambiando denaro sui mercati internazionali. E come facevano?

Con la lettera di cambio, uno strumento bancario con la duplice funzione di trasferimento di denaro e di strumento di credito; essa consente di movimentare denaro da un luogo all’altro in assenza di un trasferimento materiale di moneta, grazie solo a operazioni contabili. Per esempio, immaginate un mercante fiorentino che voglia acquistare zucchero, spezie e uva sultanina a Barcellona. Deve necessariamente inviare il denaro al suo fornitore che si trova appunto a Barcellona; gli si presenta però subito un primo e grandissimo problema: trasferire fisicamente i soldi da una città all’altra. Pensiamo infatti ai rischi e al gran dispendio di tempo che un viaggio del genere comportava a quell’epoca. E così si reca da un banchiere, che a Firenze lavoravano nel Mercato Nuovo, gli consegna il denaro e riceve una lettera di cambio: sarà quest’ultima che invierà al fornitore e sarà quest’ultimo che la porterà alla filiale spagnola della banca per riscuotere i soldi nella valuta locale. Nel caso la banca non abbia una filiale a Barcellona potrebbe appoggiarsi a quella di un istituto associato, magari in un’altra città. Un punto di forza dei fiorentini fu proprio la gran quantità di banche con filiali in vari centri italiani ed esteri. Per tutto questo meccanismo, naturalmente il gioco di squadra era fondamentale. La lettera di cambio divenne in breve anche il modo migliore per aggirare i divieti posti dalla Chiesa, attuando il rimborso del denaro prestato in un altro luogo e in altra valuta.

Lettera di cambio di Diamante e Altobianco degli Alberti a Francesco di Marco Datini e Luca del Sera, Bruges-Barcellona, 2 settembre 1398, Prato, Archivio di stato

Fisicamente la lettera di cambio si presenta con un formato ridotto ed un formulario essenziale. Su di essa sono specificati sempre la data di emissione e il numero dell’esemplare emesso, ribadito anche sulla “busta”, poiché la prassi prevedeva l’invio di più esemplari (fino a quattro), per garantire l’arrivo a destinazione di almeno uno di essi a causa della possibilità di smarrimento e dell’insicurezza delle vie di comunicazione. Solo l’esemplare giunto per primo a destinazione veniva validato.

In questa sala troviamo i “ferri del mestiere” del banchiere-mercante, per esempio i manuali come il “Libro di Mercatantie et usanze de paesi” della fine del ‘400. Questi testi ricchissimi di informazioni di ogni tipo costituiscono un genere letterario, denominato le «Pratiche di mercanzia», che si diffuse a partire dal Medioevo nelle metropoli italiane del commercio e in particolare a Firenze, Genova e Venezia. Erano compilati da mercanti come guide per scopi commerciali e vi venivano descritte le varie piazze commerciali europee e mediorientali; le loro condizioni economiche, come la moneta in corso e le altre valute accettate; le misure usate e il relativo valore; i prodotti disponibili e la loro qualità. Si presentavano come “volumetti”, di formato ridotto, adatti per essere portati con sé nei viaggi e utilizzati non solo dal mercante ma anche dal viaggiatore-turista per le migliaia di informazioni utili e pratiche.

Marinus van Reymerswaele “A Moneychangr and His Wife” (1538) olio su tavola 31×42 Madrid, Prado

Il dipinto raffigurante una famiglia di usurai di Marinus van Reymerswaele ci presenta proprio tutti gli strumenti che utilizzava il banchiere per l’esercizio del mestiere e che ritroviamo “dal vero” nella vetrina davanti. I due personaggi appaiono intenti a contare con avidità i denari sparsi sul tavolo in primo piano. Abbiamo già potuto osservare come quella della raffigurazione dei banchieri sia un genere d’arte che ebbe molto successo nella prima metà del ‘500 in area fiamminga anche per i suoi caratteri fortemente simbolici volti a dare precisi messaggi morali. Infatti qui vediamo un’attenzione particolare dell’artista nel rendere le mani dei due protagonisti: segnate dagli anni quelle dell’uomo, che si accinge a verificare il peso di una moneta sulla piccola bilancia, più candide, ma quasi rapaci, come degli artigli, quelle della moglie, che tiene il libro per la contabilità. Sullo scaffale alle loro spalle, vi sono splendidi particolari di ‘‘natura morta’’ nelle lettere, nei fogli e negli oggetti di uso quotidiano posti disordinatamente, mentre fortemente simbolica è la candela spenta, posta sulla destra ma posizionata non a caso tra i due coniugi, allusiva alla brevità della vita.

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Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità (prima parte)

PRIMA SALA

Questa mostra particolare già dal titolo che unisce due termini all’apparenza contrapposti: il Denaro e la Bellezza, l’uno appartenente alla categoria venale dell’avere, l’altro alla categoria ben più elevata dell’essere, ci fanno entrare nell’affascinante mondo della Firenze rinascimentale, quando proprio questi due aspetti, e quindi da un lato la moneta, dall’altro la bellezza incarnata nella varietà delle creazioni artistiche, raggiunsero le vette più alte nella storia dell’uomo.

Il Trecento e il Quattrocento registrarono una tensione oscillante fra l’immagine pia di una Firenze che si considerava città di Dio, addirittura la Nuova Gerusalemme, e la sua vocazione ai beni di lusso e alla finanza internazionale. E Botticelli in tutto questo? Non vedremo solo opere del Botticelli; in realtà a lui riserviamo un’attenzione particolare per il fatto che nella sua carriera pittorica, più che in ogni altra, si riflettono gli spostamenti e le tensioni dell’epoca che consideriamo, la tensione fra sacro e mondano. Infatti Botticelli inizierà con sontuosi dipinti nei quali compaiono figure sacre in eleganti abiti fiorentini, spesso impreziositi dalla foglia d’oro, di un’esaltazione della ricchezza abbagliante, passando poi ai grandiosi dipinti mitici dell’era di Lorenzo il Magnifico, per arrivare infine alle immagini sacre più austere e piene di pathos degli anni novanta del Quattrocento, nelle quali avvertiamo l’apertura dell’artista alle prediche di Savonarola, che fu il protagonista di quei roghi delle vanità che hanno portato alla scomparsa di tante opere d’arte e di cultura le cui ceneri bruciano ancora oggi.

E’ un viaggio che parte ben prima del Botticelli e precisamente nel 1252, anno della nascita del fiorino d’oro che è presentato nella prima sala all’interno di una teca di vetro come la numero 1 di Paperon de’ Paperoni. Questo minuscolo oggetto fece la fortuna di Firenze, sedusse città e Paesi, l’intera Europa non seppe più farne a meno (fino a prima della metà del Duecento Firenze non ebbe una Zecca propria e si servì dapprima della moneta di Lucca, poi di quella di Pisa: e non stupisce perché, a quel tempo, entrambe queste città la superavano per potenza e per ricchezza). Il fiorino era piccolo, quanto un cinque centesimi di euro ma in realtà, oggi, varrebbe all’incirca 110 euro. Non certo spiccioli. Per questo i fiorentini continuavano a usare l’argento per le spese di tutti i giorni mentre la nuova moneta venne riservata agli affari importanti. Dal 1252 in poi, perciò, la circolazione monetaria a Firenze divenne bimetallica.

Firenze – Fiorino d’oro risalente al 1329

Firenze era una repubblica, così il fiorino recava da una parte un giglio, fiore emblema della città (a cui si deve il nome) come vediamo qui, dall’altra san Giovanni Battista, il patrono della città. Il fiorino era sinonimo non solo di bellezza, data la finezza con la quale veniva realizzato dai migliori fonditori, intagliatori ed incisori, ma anche di sicurezza del suo valore perché la sua produzione fu condotta col massimo rigore: per esso infatti veniva utilizzato solo oro puro a 24 carati e ciascuna moneta doveva pesare esattamente 3,53 grammi. I controlli di qualità erano severissimi tanto che vennero nominati dei responsabili appositi, gli “Ufficiali della moneta”, detti anche “Signori della moneta” fino al 1373 poi detti “Ufficiali della Zecca”, che avevano un mandato di breve durata, 6 mesi, per prevenire la corruzione; un Ufficiale per il fiorino d’oro ed uno per la moneta d’argento. Infatti una delle maggiori truffe che si potevano fare era la falsificazione attraverso soprattutto la tosatura o limatura delle monete, cioè la pratica di asportare, polverizzandola, una porzione: chi fosse stato scoperto a farlo sarebbe incorso in severe punizioni.

Gli “Ufficiali della moneta” avevano il diritto di scegliere dei propri simboli, dal 1375 di solito erano gli stemmi della famiglia dell’ufficiale, da far incidere sulle monete coniate durante i 6 mesi della loro carica, queste monete dovevano poi essere registrate in un apposito registro chiamato il “Fiorinaio”.

Furono anche redatti degli Statuti, come quello presentato sempre nella prima sala, che va dal 1314 al 1461 e che contiene i più antichi ordinamenti pervenutici di questa materia.

Dal fatto che il fiorino aveva il Battista raffigurato deriva il detto “S. Giovanni non vuole inganni” a trasmettere al mondo, attraverso l’immagine del patrono della città, che dei fiorentini ci si poteva fidare, che avevano oro buono.

L’orgoglio e l’attaccamento dei fiorentini alla loro moneta, e quasi una diffidenza superstiziosa verso le novità resero vani i tentativi – peraltro rari – di introdurre modifiche radicali: lo dimostra, ad esempio, l’insuccesso di un fiorino coniato nel 1316 e sospeso nel 1318, che aveva sostituito il giglio con la croce; o di un altro coniato nel 1325 e sospeso nel 1327, che al giglio aveva tolto i tradizionali “fioretti”, che fanno subito distinguere il particolare fiore fiorentino da quello di Francia o quello di Prato e che (come dice il Borghini, filologo e storico italiano, attivo a Firenze alla corte di Cosimo I de’ Medici e di suo figlio Francesco I) non è proprio un giglio ma una specie di giaggiolo, precisamente un’Iride Illirica, da sempre cresciuto in abbondanza sul Montemorello.

Incoronazione o Pala della Zecca, Jacopo di Cione, Niccolò di Tommaso, Simone di Lapo, 1372-1373

E dal piccolissimo passiamo nella stessa sala al grandissimo: la Pala della Zecca, che viene dalla Galleria dell’Accademia e che è stata appena restaurata in occasione della mostra. Opera di Jacopo di Cione rappresenta l’Incoronazione della Vergine, detta della Zecca perché fu commissionata dai “Signori della moneta” per la propria residenza in prossimità del Palazzo dei Priori. Tavola che  appare abbagliante nella sua preziosità, a partire dalla presenza massiccia dell’oro, per non parlare dei tessuti di tipo francese così dettagliatamente dipinti. All’esecuzione della grande Pala contribuirono anche Niccolò di Tommaso e Simone di Lapo, pittore dalla fisionomia artistica ancora ignota. La tavola era poi conclusa da una cornice scolpita e ornata dal lapicida Giovanni di Ambrogio, con gli stemmi del Comune di Firenze e delle corporazioni dei Mercatanti o di Calimala che riuniva i mercanti di prodotti tessili e del Cambio, i cambiavalute, i commercianti di pietre e metalli preziosi e tutti coloro che praticavano il deposito e il credito locale ed estero. I santi raffigurati sono: Giovanni Battista, Reparata, Anna, riconoscibile per la città in miniatura che reca con sé, e Zanobi, primo vescovo fiorentino; a essi si aggiungono Barnaba e Vittore, santi onorati a Firenze dopo le vittorie riportate sui ghibellini nella battaglia di Campaldino l’11 giugno 1289, festa di san Barnaba, e contro i pisani a Cascina il 28 luglio 1364, nella festa di san Vittore. Compaiono inoltre i santi protettori delle corporazioni del Cambio e di Calimala, l’Evangelista Matteo e ancora il Battista. Sul gradino infine vi sono gli stemmi (da sinistra) della famiglia Alberti, dell’Arte di Calimala, il giglio di Firenze, lo stemma angioino, il Sigillo di Firenze, l’emblema degli Angiò di Durazzo, della Parte Guelfa, dell’Arte del Cambio e della famiglia Davanzati. Gli stemmi degli Alberti e dei Davanzati sono riconducibili ai rappresentanti delle corporazioni di Calimala e del Cambio in carica all’epoca dell’esecuzione del dipinto come “Signori della Moneta”: Bartolomeo di Caroccio Alberti e Davanzato di Giovanni Davanzati.

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Nonno raccontami una storia: gli affetti familiari nell’arte

La figura del nonno si è nel corso del tempo modificata, seguendo le trasformazioni legate alla famiglia. Al giorno d’oggi i nonni sono figure di supporto indispensabili, non solo a livello educativo, ma anche economico se si pensa al costo degli asili e al fatto che è sempre maggiore la necessità che entrambi i genitori lavorino. Quest’ultimo aspetto non è più solo legato alla scrosanta emancipazione femminile ma è una reale e indispensabile necessità per arrivare a fine mese. Purtroppo in Italia il supporto alla donna che lavora, al momento che diviene madre, è pressocchè nullo e la scelta obbligata che sempre più spesso le si presenta, se non dispone dell’aiuto fondamentale dei nonni, è rinunciare al proprio lavoro e alla possibilità della propria crescita professionale.

Già nell’ultimissimo periodo la famiglia è molto cambiata e, anche per questo aspetto sociale, si vede un’importante differenziazione tra nord, centro e sud dell’Italia. Le due principali tipologie di famiglia sono: nucleari e complesse. Quest’ultima ha carettizzato già all’inizio del Medioevo gli abitanti delle aree rurali e, nel sud, si è mantenuta ancora oggi. Chiaramente la famiglia complessa, cioè costituita da un largo numero di componenti, è legata soprattutto al bisogno di manodopera per lavorare i campi. Mia madre, di origine siciliana, mi ha  raccontato, con grandissima malinconia, come quando era piccola si conviveva tutti insieme: con i nonni e addirittura con cugini e zii. Soprattutto in vacanza si era abituati a prendere in affitto una stanza e a stare tutti insieme, dormendo per terra in sacchi a pelo. Addirittura, mi raccontava, se c’erano le scale, ogni scalino era occupato da una persona che vi dormiva. Naturalmente le controindicazioni, come in tutte le cose, non mancano e chiaramente in un ampio nucleo familiare viene un pò meno l’intimità della coppia in tutti i suoi aspetti. D’altra parte si va sempre più verso l”‘isolamento”, i parenti non si vedono quasi più se non in occasioni particolari, come il Natale (e a volte nemmeno). Il rapporto con i nonni viene coltivato ma ha preso una direzione diversa. Nella storia la figura dell’anziano, già negli agglomerati tribali, era la figura del saggio che portava sulle sue esperte spalle tutto il sapere antico e, ancor meglio in una società dove ancora non vi era la scrittura per tramandare il sapere, tali figure assumevano un ruolo fondamentale di generazione in generazione. Ancora oggi tra i ricordi più belli che un bambino si porta con sè nella crescita sono quei momenti passati sulle ginocchia dei nonni a farsi incantare dalla storia della loro vita.

In arte è soprattutto dall’Ottocento, quando si inizia a rappresentare gli affetti più quotidiani, che si da attenzione al rapporto tra nonni e nipoti, il quale si è andato comunque molto trasformando rispetto per esempio al Settecento. Infatti si fa via via meno rigido e referenziale, pensiamo che i figli dovevano rivolgersi ai genitori dando loro del “voi” e così con i nonni e addirittura fra marito e moglie si usava questo modo freddo di relazionarsi.

Jan Hendrick Van Grootvelt riprende un momento di allegria e serenità al lume di candela; ormai è giunta la sera e il bambino sta per andare a letto. Bellissimo e pieno di dolcezza è lo scambio di sguardi tra il nonno e il piccolo, in piedi sulle sue ginocchia. Un momento di gioco o il momento di raccontare una filastrocca o una storia. E’ proprio l’arte fiamminga dell’Ottocento a farci assaporare maggiormente momenti di grande intensità affettiva, rivelando ancora una volta la sua principale caratteristica, da sempre presente, di grande pathos nelle composizioni.

 

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