Archivi categoria: Esperienze con le opere d’arte

L’UNIVERSO DI ATHOS ONGARO

ATHOS ONGARO

Non osare è fatale”

La prima questione che le opere, e in particolare le sculture di Ongaro, sollevano è quella della definizione, nella nostra testa, di “classico”.

Athos Ongaro “Lirico”, marmo statuario, h. 220 cm

Se guardiamo il Lirico, infatti, vediamo che è realizzata anatomicamente in maniera “classica”, fattore accentuato anche dalla scelta del materiale, il marmo statuario ma se la osserviamo meglio nei suoi molteplici particolari anche, da più punti di vista, girandoci intorno, vi accorgete che c’è qualcosa di strano rispetto a ciò che siamo abituati a vedere nelle opere della classicità. Innanzitutto il corpo del sedicente poeta è sbilanciato fino alla deformazione nel suo malriuscito tentativo di cantare la lode e la sensazione che ci da in un’ultima analisi è quella di un equilibrio precario. Quel corpo che, a prima vista, ci sembrava così aggraziato e perfetto, si scompone e il canone di proporzione perfetta fra le parti del corpo umano, teorizzato dallo scultore greco Policleto nel lontano 400 a.C, va a farsi benedire. Perché la testa appare troppo piccola rispetto al resto del corpo, le mani troppo grandi e così il collo. Il tutto condito dal cinghiale sorridente e ammiccante che si struscia alle gambe di questo strano poeta, riportandolo e riportandoci nella materialità del mondo. Tra l’altro il cinghiale è il discendente di quello romano degli Uffizi.

Ongaro quindi reinterpreta l’antico, lo attualizza e lo fa anche in maniera ironica. Vedremo come l’elemento di ironia, di sberleffo, di provocazione, sia sempre presente nelle opere di Ongaro come strumento di aiuto per pensare, per riflettere sulla nostra vita e sul mondo, sulle radici della nostra civiltà. In Ongaro non c’è, come invece in molti artisti contemporanei, un rifiuto della tradizione ma anzi il passato è riproposto, nei materiali, nelle tecniche, vivendolo come una cosa non digerita, che ha ancora lezioni da dare.

Quello che vedremo sarà una continua sorpresa perché questo artista non può essere identificabile, e lui stesso non vuole esserlo, con alcun modo o maniera o stile predefinito, anzi egli è contro queste etichettature. Dice: “l’arte soffre di claustrofobia, non ce la fa proprio a stare ingabbiata nei dogmi”. Nelle sue opere assisteremo ad una messinscena inesauribile, in cui fanno la loro comparsa figure della civiltà minoica, della (come nel caso del Lirico) mitologia classica, del Cristianesimo, insieme a suggestioni che richiamano il manierismo, il neoclassicismo, ma anche il pop, il liberty e il mondo delle fiabe e dei cartoon americani, elementi sempre riletti in chiave inedita, spesso irridente e, solo in apparenza irriverente. È proprio questo che dà alle opere di Ongaro quella particolare atmosfera di incertezza esistenziale che ne costituisce il fascino specifico.

Ma addentriamoci in questo mondo.

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Moving Image in China: il senso di inquietudine dell’uomo conetmporaneo al Museo Pecci di Prato

“L’uomo vive come uno schiavo di sé stesso e dell’ambiente; ma questa vita umile, fatta di solitudine, silenzio, fantasia, tedio e passione, a volte è così insopportabile che sentiamo il desiderio di volare. É un modo per trascendere o scappare”. Così descrive la sua opera video, Fly Fly, Jiang Zhi. L’effetto del suo video è ancor più d’impatto proprio per la sua semplicità. L’artista grida la sua volglia di libertà silenziosamente, anzi con un bellissimo sottofondo di musica classica, attraverso il solo gesto di un braccio che, muovendosi dall’alto verso il basso e viceversa, richiama alla mente il battito d’ali di un uccello. Lo sfondo di quel gesto non è però il cielo ma la propria abitazione, ingrigita dal tempo, a rappresentare la vita umile di tutti i giorni.

Jiang Zhi – Fly Fly 1997

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Nicola de Maria al Museo Pecci di Prato protratta fino alla fine di marzo: a spasso tra i colori

Oggi andiamo a spasso tra i colori incredibili di Nicola De Maria, passando da una sala all’alltra del Museo Pecci a Prato.

L’arte di De Maria dialoga profondamente con l’ambiente che la contiene e molto spesso, in una sorta di esplosione sentimentale, le forme fuoriescono letteralmente dai limiti delle tele e, come dischi volanti, volano nello spazio, sulle nostre teste.

 

Rimaniamo un attimo rapiti, nella seconda sala, dall’ “Universo senza bombe”, titolo scritto in fondo all’opera in lettere che, come note musicali, si muovono all’interno di un pentagramma. Una natura incantata invade uno spazio che emana pace e gioia, un sogno, una sorta di preghiera per una possibile alternativa alle bruttezze del mondo reale: questo quello che l’arte di De Maria vuole essere. “Con i miei lavori vorrei cancellare la povertà, la malattia, l’ignoranza e la violenza. Dovrebbero essere così belli e splendenti da raggiungere questo fine. Se no, un pittore cosa ci sta a fare?”

I colori danno idea sempre di grande freschezza, soprattutto i suoi bellissimi paesaggi: montagne, colline, zone erbose che svelano a tratti nascosti misteriosi animali, tutto realizzato esclusivamente con il colore.

Al contrario di quanto ci potremmo immaginare queste opere, realizzate su cassette, quindi materiali di recupero, hanno un procedimento esecutivo estremamente lento, meditativo. L’artista cioè da un colore alla volta e lo lascia riposare, calmare, sulla superficie, prima di intervenire nuovamente. E’ proprio questo modo di lavorare le superfici che non provoca il cracklé, cioè quella naturale fessurizzazione del colore, quando si da molto corposo in un punto: non c’è dramma nemmeno fisico nelle opere di De Maria.

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