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Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità (prima parte)

PRIMA SALA

Questa mostra particolare già dal titolo che unisce due termini all’apparenza contrapposti: il Denaro e la Bellezza, l’uno appartenente alla categoria venale dell’avere, l’altro alla categoria ben più elevata dell’essere, ci fanno entrare nell’affascinante mondo della Firenze rinascimentale, quando proprio questi due aspetti, e quindi da un lato la moneta, dall’altro la bellezza incarnata nella varietà delle creazioni artistiche, raggiunsero le vette più alte nella storia dell’uomo.

Il Trecento e il Quattrocento registrarono una tensione oscillante fra l’immagine pia di una Firenze che si considerava città di Dio, addirittura la Nuova Gerusalemme, e la sua vocazione ai beni di lusso e alla finanza internazionale. E Botticelli in tutto questo? Non vedremo solo opere del Botticelli; in realtà a lui riserviamo un’attenzione particolare per il fatto che nella sua carriera pittorica, più che in ogni altra, si riflettono gli spostamenti e le tensioni dell’epoca che consideriamo, la tensione fra sacro e mondano. Infatti Botticelli inizierà con sontuosi dipinti nei quali compaiono figure sacre in eleganti abiti fiorentini, spesso impreziositi dalla foglia d’oro, di un’esaltazione della ricchezza abbagliante, passando poi ai grandiosi dipinti mitici dell’era di Lorenzo il Magnifico, per arrivare infine alle immagini sacre più austere e piene di pathos degli anni novanta del Quattrocento, nelle quali avvertiamo l’apertura dell’artista alle prediche di Savonarola, che fu il protagonista di quei roghi delle vanità che hanno portato alla scomparsa di tante opere d’arte e di cultura le cui ceneri bruciano ancora oggi.

E’ un viaggio che parte ben prima del Botticelli e precisamente nel 1252, anno della nascita del fiorino d’oro che è presentato nella prima sala all’interno di una teca di vetro come la numero 1 di Paperon de’ Paperoni. Questo minuscolo oggetto fece la fortuna di Firenze, sedusse città e Paesi, l’intera Europa non seppe più farne a meno (fino a prima della metà del Duecento Firenze non ebbe una Zecca propria e si servì dapprima della moneta di Lucca, poi di quella di Pisa: e non stupisce perché, a quel tempo, entrambe queste città la superavano per potenza e per ricchezza). Il fiorino era piccolo, quanto un cinque centesimi di euro ma in realtà, oggi, varrebbe all’incirca 110 euro. Non certo spiccioli. Per questo i fiorentini continuavano a usare l’argento per le spese di tutti i giorni mentre la nuova moneta venne riservata agli affari importanti. Dal 1252 in poi, perciò, la circolazione monetaria a Firenze divenne bimetallica.

Firenze – Fiorino d’oro risalente al 1329

Firenze era una repubblica, così il fiorino recava da una parte un giglio, fiore emblema della città (a cui si deve il nome) come vediamo qui, dall’altra san Giovanni Battista, il patrono della città. Il fiorino era sinonimo non solo di bellezza, data la finezza con la quale veniva realizzato dai migliori fonditori, intagliatori ed incisori, ma anche di sicurezza del suo valore perché la sua produzione fu condotta col massimo rigore: per esso infatti veniva utilizzato solo oro puro a 24 carati e ciascuna moneta doveva pesare esattamente 3,53 grammi. I controlli di qualità erano severissimi tanto che vennero nominati dei responsabili appositi, gli “Ufficiali della moneta”, detti anche “Signori della moneta” fino al 1373 poi detti “Ufficiali della Zecca”, che avevano un mandato di breve durata, 6 mesi, per prevenire la corruzione; un Ufficiale per il fiorino d’oro ed uno per la moneta d’argento. Infatti una delle maggiori truffe che si potevano fare era la falsificazione attraverso soprattutto la tosatura o limatura delle monete, cioè la pratica di asportare, polverizzandola, una porzione: chi fosse stato scoperto a farlo sarebbe incorso in severe punizioni.

Gli “Ufficiali della moneta” avevano il diritto di scegliere dei propri simboli, dal 1375 di solito erano gli stemmi della famiglia dell’ufficiale, da far incidere sulle monete coniate durante i 6 mesi della loro carica, queste monete dovevano poi essere registrate in un apposito registro chiamato il “Fiorinaio”.

Furono anche redatti degli Statuti, come quello presentato sempre nella prima sala, che va dal 1314 al 1461 e che contiene i più antichi ordinamenti pervenutici di questa materia.

Dal fatto che il fiorino aveva il Battista raffigurato deriva il detto “S. Giovanni non vuole inganni” a trasmettere al mondo, attraverso l’immagine del patrono della città, che dei fiorentini ci si poteva fidare, che avevano oro buono.

L’orgoglio e l’attaccamento dei fiorentini alla loro moneta, e quasi una diffidenza superstiziosa verso le novità resero vani i tentativi – peraltro rari – di introdurre modifiche radicali: lo dimostra, ad esempio, l’insuccesso di un fiorino coniato nel 1316 e sospeso nel 1318, che aveva sostituito il giglio con la croce; o di un altro coniato nel 1325 e sospeso nel 1327, che al giglio aveva tolto i tradizionali “fioretti”, che fanno subito distinguere il particolare fiore fiorentino da quello di Francia o quello di Prato e che (come dice il Borghini, filologo e storico italiano, attivo a Firenze alla corte di Cosimo I de’ Medici e di suo figlio Francesco I) non è proprio un giglio ma una specie di giaggiolo, precisamente un’Iride Illirica, da sempre cresciuto in abbondanza sul Montemorello.

Incoronazione o Pala della Zecca, Jacopo di Cione, Niccolò di Tommaso, Simone di Lapo, 1372-1373

E dal piccolissimo passiamo nella stessa sala al grandissimo: la Pala della Zecca, che viene dalla Galleria dell’Accademia e che è stata appena restaurata in occasione della mostra. Opera di Jacopo di Cione rappresenta l’Incoronazione della Vergine, detta della Zecca perché fu commissionata dai “Signori della moneta” per la propria residenza in prossimità del Palazzo dei Priori. Tavola che  appare abbagliante nella sua preziosità, a partire dalla presenza massiccia dell’oro, per non parlare dei tessuti di tipo francese così dettagliatamente dipinti. All’esecuzione della grande Pala contribuirono anche Niccolò di Tommaso e Simone di Lapo, pittore dalla fisionomia artistica ancora ignota. La tavola era poi conclusa da una cornice scolpita e ornata dal lapicida Giovanni di Ambrogio, con gli stemmi del Comune di Firenze e delle corporazioni dei Mercatanti o di Calimala che riuniva i mercanti di prodotti tessili e del Cambio, i cambiavalute, i commercianti di pietre e metalli preziosi e tutti coloro che praticavano il deposito e il credito locale ed estero. I santi raffigurati sono: Giovanni Battista, Reparata, Anna, riconoscibile per la città in miniatura che reca con sé, e Zanobi, primo vescovo fiorentino; a essi si aggiungono Barnaba e Vittore, santi onorati a Firenze dopo le vittorie riportate sui ghibellini nella battaglia di Campaldino l’11 giugno 1289, festa di san Barnaba, e contro i pisani a Cascina il 28 luglio 1364, nella festa di san Vittore. Compaiono inoltre i santi protettori delle corporazioni del Cambio e di Calimala, l’Evangelista Matteo e ancora il Battista. Sul gradino infine vi sono gli stemmi (da sinistra) della famiglia Alberti, dell’Arte di Calimala, il giglio di Firenze, lo stemma angioino, il Sigillo di Firenze, l’emblema degli Angiò di Durazzo, della Parte Guelfa, dell’Arte del Cambio e della famiglia Davanzati. Gli stemmi degli Alberti e dei Davanzati sono riconducibili ai rappresentanti delle corporazioni di Calimala e del Cambio in carica all’epoca dell’esecuzione del dipinto come “Signori della Moneta”: Bartolomeo di Caroccio Alberti e Davanzato di Giovanni Davanzati.

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